Kalsang Dolkar, presidente nazionale della comunità tibetana in Italia, testimone del genocidio culturale

Quando l’uccello di ferro volerà e i cavalli correranno sulle ruote, il Dharma arriverà nella terra dell’uomo rosso e i tibetani saranno dispersi per tutta la terra, messaggio profetico risalente all’ottavo secolo, che preannunciava l’invasione cinese in Tibet. Soprusi, violenze, oppressioni, massacri, repressione iniziati nel ‘59 e che a oggi, purtroppo, continuano a verificarsi a danno di una popolazione depredata dei suoi diritti di libertà nelle varie declinazioni.

 L’incontro con Kalsang Dolkar, la presidente nazionale della comunità Tibet in Italia, presente in Campania in occasione di varie manifestazioni di sensibilizzazione, fornisce un interessante spunto di riflessione sulla relativa spinosa e tragica situazione internazionale. Grazie alla sua disponibilità sono venuti alla luce aspetti sia della sua figura che del movimento tibetano. Quest’ultimo potrebbe essere, infatti, una scelta pedagogica per l’Occidente, sostanziato nell’uso della non violenza come sistema di difesa.

Per le persone che non La conoscono, può raccontare qualcosa di Lei?

Sono tibetana, vissuta in India, figlia di esiliati ai primi anni dell’occupazione cinese. Faccio parte della generazione tibetana nata e cresciuta “fuori”. Infatti, siamo soliti dire che la prima lettera che impariamo è R di rifugiato. Quindi, sin dall’età scolastica, sorge in tutti noi l’obiettivo di tornare in Tibet.

Quale è la sua posizione in merito alla situazione geopolitica?

Tutti i tibetani vogliono l’indipendenza, ma non è una scelta da poter pragmaticamente seguire. Il Dalai Lama desidera l’indipendenza, ma, fino a ora, non ha portato ad alcun risultato. Sulla scorta di questa esperienza, è maturata l’idea della necessità di una scelta realistica, tenendo conto della globalizzazione. Bisogna, invero, trovare la cosiddetta win-win solution. Quindi, si è arrivati a optare per una genuina autonomia: la nostra religione, la nostra cultura, ma “sotto governo cinese”.  Dagli  anni ‘70 stiamo seguendo questa strada, anche solo per una graduale pacifica convivenza.

Che impatto ha con le Istituzioni?

Partendo dalla consapevolezza dell’egemonia economica, come particolare forma di protesta e di affermazione della nostra affrancazione abbiamo introdotto il lakar, ovverosia il mercoledì bianco, il giorno stabilito in cui è bandito il mondo cinese nei gesti quotidiani, dalla spesa al linguaggio.

Qual è il suo rapporto con la religione?

Si è rafforzato, sebbene stia vivendo molte difficoltà. Soprattutto, per noi il buddismo non è una religione separata dalla vita normale, ma un modo di vivere.

Imperversa una critica al Dalai Lama per il suo essere più politico che religioso, cosa ne pensa?

Questa è la critica mossa dai cinesi, che definiscono il Dalai Lama come un separatista. Da circa 360 anni rappresenta un istituto politico e religioso che ha sempre funzionato. Viene scelto attraverso una procedura sofisticata,  fino a oggi non ha mai fallito.

La realtà italiana, dove il diritto è il suo punto cardine,  in che modo si è posta?

Alcuni cittadini in esilio sono stati adottati a distanza dagli Italiani, da cui hanno ricevuto molti aiuti. Abbiamo registrato numerose proposte di cittadinanza onoraria a Dalai Lama. Il problema del Governo italiano è che crede di esser libero, ma concretamente non lo è. Questo è dato dal fatto che vede nella Cina una soluzione ai suoi problemi. Scelta, secondo me, sbagliata. Non è parificabile alla Germania, forte del suo potere, che riesce a scegliere prescindendo dal controllo cinese. Devo però precisare, a onore della verità, che all’interno del Parlamento, ci sono gruppi che sostengono la nostra causa.

Come sintetizzerebbe l’ azione o il suo impegno di vita?

Tornare in Tibet. Tibet Libero!.

                       

Calpestare un popolo nella sua dignità, identità e valore nazionale non può lasciare indifferenti chi vive un, sedicente, libero culturalismo politico. La stessa lente che permette di leggere quello che c’è dietro l’ingiustificata drammaticità di questa storia, ammantata da altre vesti per evitare il disvelamento dei reali interessi alla base del partito comunista cinese.

Maria Rosaria Cardenuto

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