- Chi è l’avvocato Vincenzina Maio? Quando ha deciso di intraprendere questa carriera?
<<Sono nata a Salerno e, dopo gli studi classici e la laurea in giurisprudenza, ho iniziato subito la pratica forense cogliendo l’opportunità di seguire due studi legali : uno che si occupava di processi di criminalità organizzata, l’altro di materie civilistiche. Contemporaneamente decisi di continuare gli studi post laurea e di approfondire il settore penale, che mi aveva affascinata sin dai tempi dell’università, conseguendo la specializzazione in diritto e procedura penale. Arrivata l’abilitazione forense, ho iniziato l’attività professionale ad Avellino e poi, successivamente con il matrimonio, mi sono ritrasferita a Salerno, dove ho avviato un’associazione professionale. Le successive specializzazioni conseguite hanno aperto un panorama più vasto di interesse e competenze professionali, che oggi spazia anche attraverso il diritto tributario, il diritto dei trust ed il biodiritto>>.
- Chi è il magistrato Gianmario Palliggiano? Qual è stata la spinta motivazionale nello scegliere proprio questo tipo di concorso?
<<Il mio percorso non è stato lineare. Ho avuto diverse esperienze lavorative precedenti, a seguito delle quali ho maturato la convinzione di tentare il concorso in magistratura, stimolato soprattutto dall’idea di potere svolgere una delicata quanto affascinante funzione nella quale la speculazione teorica del diritto deve necessariamente legarsi con l’esigenza di risolvere il caso singolo, nel rispetto dei principi di autonomia e della competenza tecnica.
Poiché ormai non ero più giovanissimo ed avevo acquisito i necessari requisiti di legge (all’epoca lavoravo in Banca d’Italia), nel 2003 ho partecipato direttamente al concorso per la magistratura amministrativa dei TAR (Tribunali amministrativi regionali), per la quale occorre, oltre alla laurea in giurisprudenza, il prestare servizio, per almeno cinque anni, presso una pubblica amministrazione in posizione per l’accesso alla quale è richiesta la laurea in giurisprudenza.
Il concorso in magistratura amministrativa, al pari della magistratura ordinaria, è davvero difficile, sia per il livello competitivo dei partecipanti sia per le prove scritte che sono ben quattro (diritto civile, diritto amministrativo, diritto finanziario, diritto amministrativo prova pratica).
Ecco, uno degli stimoli maggiori mi è venuto anche dal forte desiderio di superare una prova difficile e quindi di mettermi, come si suol dire, “in gioco”>>.
- Dal punto di vista sociale, questa professione, l’avvocato, porta dietro di sé diversi stereotipi o, comunque, nel comune sentire si sostanzia nella figura dell’”azzeccargabugli”, risolutore di problemi a ogni costo. Lei, invece, conscia dello studio che c’è dietro, come descriverebbe questo lavoro?
<<L’avvocato è il difensore dei diritti per antonomasia. La sua vocazione (anche termine logicamente, avvocato deriva da ad-vocatus: “chiamato a”) è quella di fornire aiuto per la tutela dei diritti. La nostra professione ha una valenza molto alta, riconosciuta dalla stessa Costituzione quando, all’art. 24, individua la difesa come diritto inviolabile della persona. Un tempo l’avvocato, anche nell’immaginario sociale, godeva di rispetto quasi reverenziale. Sostenuto dalla cultura classica, vantava ampie citazioni letterarie per le sue arringhe e arguti brocardi latini per i suoi atti. L’avvocato era il centro della scena processuale , con indosso la sua inseparabile toga, e non un freddo regolatore del tecnicismo giuridico. Il simbolismo aveva un forte impatto sociale. Pensiamo a figure come Francesco Carnelutti e Alfredo De Marsico. Il tempo ha mutato la figura professionale dell’avvocato, a cominciare dalla perdita dell’obbligatorietà della toga (l’unico luogo dove è rigorosamente necessaria è la Corte di Cassazione!) sicché, entrando in un’aula di Tribunale, è facile che non si capisca chi è l’avvocato e chi il cliente. E poi c’è il declino della preparazione. Oramai, da tempo non ci si prepara più a diventare avvocati. Non si dà spazio alla conoscenza dell’arte dell’eloquenza. Scarsa è l’attenzione alla deontologia e risulta pressoché azzerata l’etica professionale. Ci si accontenta di un mero nozionismo, a discapito della formazione delle coscienze. Anche la capacità di rimanere ancorati tutta la vita allo studio è in disuso: nonostante sia una professione intellettuale, l’avvocato spesso è disabituato allo studio quotidiano e sistematico. Complici anche i nuovi strumenti professionali – tra tutti, internet e le banche dati – che abituano le menti a ricercare sempre e solo la velocità delle risposte, il libro ha perso la sua capacità attrattiva, a discapito della gradualità della riflessione. E’ su questo piano, sempre più inclinato, che oggi si muove la professione forense>>.
- Il Magistrato solitamente è rappresentato come una sorta di “deus ex machina” che al di sopra di ogni sospetto è sempre super partes, attento alle reali esigenze di Giustizia e detentore della verità non solo processuale, ma si spera anche di quella storica.
E’ anche vero che il Magistrato è un essere umano, in quanto tale influenzabile o, quantomeno, potrebbe essere inclinato verso un’idea per convinzioni personali che prescindono dalla “ cosa giudicata o da giudicare”. Secondo Lei, al di là delle lentezze del sistema e al di là di errori scusabili imputabili a posizioni personali, come definisce la responsabilità civile dei magistrati (introdotto con la L. 27.02.2015 n°18 ) che riforma la legge Vassalli a favore di un raccordo con il diritto dell’Unione Europea ?
<<Nell’immaginario collettivo il giudice è visto come un soggetto distante, a volte troppo distaccato dalla realtà quotidiana, anche quando questa viene portata nelle aule giudiziarie. Ho notato poi che la figura del giudice, almeno in Italia, è colta soprattutto nel momento dell’esercizio del potere che, a volte, viene purtroppo percepito come un esercizio non oggettivo ma arbitrario e volubile.
Non è così. Il giudice ricopre una funzione delicata, quella di decidere su casi controversi o, in materia penale, sulla colpevolezza dell’imputato. Decidere significa scegliere. La scelta deve reggersi su criteri oggettivi, nel caso del giudice l’applicazione della legge. Solo così il giudice è autenticamente terzo, imparziale e neutrale rispetto al caso da decidere. Il tentativo di raggiungere la verità sostanziale nelle sedi processuali può essere realizzato solo se il giudice è portatore di una competenza tecnica; solo in questo modo le convinzioni personali, il retroterra culturale e sociale del giudice può restare “fuori dalla porta”.
Oggi la funzione del giudice è messa in discussione per questioni che esulano dal campo strettamente giuridico e che guardano al fenomeno della crisi del sistema giustizia: numero elevato del contenzioso, cronica mancanza di risorse strumentali ed umane; lunghezza dei processi.
In questo quadro la possibilità dell’errore da parte del giudice è indubbiamente alta. Di qui il recente inasprimento del legislatore circa il regime della responsabilità civile dei magistrati. Da giudice ritengo che la riforma legislativa, pur partita dalla contestata esigenza di un raccordo con il diritto dell’Unione europea, abbia reso la posizione del giudice ancora più difficile, facendo convergere sulla sua figura una serie di atavici problemi strutturali ed organizzativi che di certo non possono essere risolti innalzando le ipotesi di responsabilità. C’è il rischio al contrario di avere giudici più “timorosi” nel decidere, proprio perché preoccupati di incappare nelle maglie della responsabilità, senza che questo riesca a contribuire al raggiungimento del vero obiettivo del processo: quello di fare coincidere, in tempi relativamente rapidi, la verità processuale con quella sostanziale>>.
- A un certo punto della sua carriera ha pensato di dedicarsi alla formazione. Come mai? Che rapporto instaura con i giovani aspiranti avvocato e, soprattutto, potrebbe descrivere le figure di ragazzi che si ripetono negli anni?
<<Quando mi preparavo a sostenere l’esame di abilitazione, ebbi difficoltà a trovare un corso di preparazione che fosse completo, cioè che coniugasse la teoria con la pratica e che desse la giusta attenzione alla scrittura. E’ così decisi di portare in campo la mia idea di preparazione. Sono orami trascorsi quindici anni e oggi, ancor più di ieri, mi rendo conto che è la trama del tempo del dare e ricevere, fra generazioni di avvocati, che fa la nostra storia e ne segna l’identità. La massificazione della professione ne ha determinato anche l’inflazione. E’ sotto gli occhi di tutti la difficoltà di un praticante avvocato oggi a trovare un avvocato disposto a insegnargli , a trasmettergli la professione. La pratica spesso è ridotta ad una serie interminabile di adempimenti (necessari anche quelli, si intende, ma non solo!) con poco contatto con il vissuto professionale. A mio avviso questo è un errore, perché l’avvocato che smette di essere maestro per le nuove generazioni, perde l’occasione di far crescere la professione. Nel fluire del tempo occorrono avvocati capaci di raccogliere il meglio di quanto tramandato e che riescano, con la vita e le opere, a contribuire a innalzare la società e la professione cui appartengono. Questo è un compito non delegabile e non differibile e ognuno di noi deve dare qualcosa, accompagnando i giovani con lo stile, l’esempio, l’insegnamento, il ricordo lungo tutto il corso della vita e non soltanto professionale. Solo così potremo aiutare a vincere lo scoraggiamento, che è l’atteggiamento più ricorrente nei giovani praticanti che ho incontrato in questi anni. Calati in un mondo del lavoro che non li accoglie più, i giovani che si avvicinano all’abilitazione hanno bisogno, anzitutto, di qualcuno che li incoraggi a credere in se stessi, a pensare che un altro modo di vivere l’inserimento è possibile, che non è tutto corruzione e demerito, che è necessario combattere con le armi dello studio, della volontà e della determinazione per realizzare il proprio sogno professionale>>.
- Da Magistrato ha iniziato a formare quella classe di potere che decide le sorti dei cittadini nella macchina del processo. La scelta di volersi porre in questo ruolo, aspirante magistrato, ingloba la capacità di essere talmente lucidi da poter affrontare i problemi degli altri che si riverberano, inesorabilmente, nella comunità. Che tipo di persona, ai suoi corsi, ha incontrato negli anni?
<<“Classe di potere”, mi sembra un po’ eccessivo.
Davvero ampio è il panorama dei ragazzi che ho incontrato nel corso dell’attività formativa sinora svolta.
Ho apprezzato allievi molto preparati e motivati, nei quali si percepiva la tensione emotiva e l’enorme serietà nell’affrontare il concorso, una dura prova anche in termini esistenziali; sono gli allievi che tutti i docenti vorrebbero. Forse, però, a pensarci bene, quelli che rappresentano per il docente la sfida più stimolante sono proprio gli allievi che vengono non perché hanno già scelto “cosa fare da grandi” ma per esplorare, per sondare il terreno. Riuscire a coinvolgerli e condurli verso l’impervio sentiero della magistratura è forse l’impresa più difficile ma più gratificante per un formatore>>.
- Il concorso per la professione forense è sempre stato nell’occhio del ciclone: sia per il numero di presenze che si registra, sia per le modalità di svolgimento, e, infine, per i parametri di valutazione/correzione. Lei è pienamente d’accordo con questa impostazione o proporrebbe modifiche da apportare?
<<Oramai, da tanto tempo la professione di avvocato ha eliminato, per lo più, la redazione del parere motivato come atto tipico. Il parere è, nella migliore delle ipotesi, un parere orale, salvo che ci si trovi a contatto con realtà societarie o pubbliche, che ancora richiedono una tale attività. Alcuni anni fa ebbi la fortuna di concludere il corso di preparazione all’esame di avvocato con la presenza dell’avvocato Riccardo Scocozza, figura nobilissima e appassionata, che ci raccontò di come, ai suoi inizi, fosse fondamentale nello svolgimento della professione saper redigere un parere motivato . “Era il tempo in cui – disse – il parere andava ” a peso”: più era lungo in termini di pagine, più era remunerato”. Oggi questa realtà non esiste più. Ecco perché diviene più che legittimo chiedersi perché l’esame di abilitazione continui a essere parametrato su due prove di parere motivato, a scapito dell’atto giudiziario, relegato all’angolo, che invece è la punta di diamante del nostro lavoro. E poi c’è il grande punto interrogativo delle correzioni degli elaborati. Viviamo in un sistema in cui è granitica la convinzione che il voto numerico sia sufficiente a dare contezza della preparazione dei candidati. L’assenza di motivazione, invece, è l’aspetto più frustrante perché il candidato bocciato non riceve neppure la soddisfazione di sapere quali parti del suo elaborato erano sbagliate. Gli elaborati sono privi di qualsiasi correzione e/o indicazione. La riforma della professione, che ha coinvolto anche l’accesso, cerca di porre rimedio a tutte queste sfasature ma, come spesso accade in Italia, la logica della proroga assorbe qualsiasi velleità di cambiamento. Inoltre, è da considerare che il nostro sistema sconta le dinamiche errate dei percorsi universitari. Le nostre facoltà di giurisprudenza – per lo più – sono prive di occasioni pratiche in cui lo studente possa avere contezza del diritto vivente e della vita professionale. Anche la riforma delle Scuole di Specializzazione ha mancato l’appuntamento del cambiamento, continuando a proporre un modello obsoleto, inutile prolungamento degli anni universitari.
A mio avviso, occorre invertire la rotta, rimettendo al centro la persona dell’aspirante avvocato, con tutto quello che ne consegue in termini di attenzione alle sue esigenze di rispetto e preparazione>>.
- Il concorso di accesso alla magistratura è definito da limiti stringenti e una mole di studio che implica un impegno notevole. Secondo Lei, è funzionale per selezionare persone davvero preparate o, come per l’italiana memoria, imporre di sapere (auspicabilmente) tutto è ad appannaggio di una reale specializzazione più qualificante?
<<Come sopra ho chiarito, la competenza tecnica, ossia la conoscenza approfondita delle materie giuridiche, è il presupposto necessario di base per assicurare la formazione di una classe di giudici preparati.
Non mi stancherò mai di affermare che la preparazione giuridica è il primo passo per garantire l’autonomia e la neutralità delle decisioni giurisdizionali.
Per questa ragione è inevitabile ed anzi irrinunciabile che il concorso in magistratura sia una prova seriamente selettiva e, soprattutto, improntata a criteri oggettivi.
Possiamo tuttavia discutere se la formula oggi ancora in piedi sia la più appropriata per selezionare davvero i più bravi e meritevoli.
Su questo punto, comincio a nutrire qualche dubbio.
Il numero elevato dei candidati che si presenta negli ultimi anni alle prove, ha prodotto tra gli altri un effetto che direi perverso: si tende ad affidare la selezione a tracce su argomenti molto specifici, settoriali, che quasi sempre richiedono al candidato di conoscere la sentenza dell’ultima ora delle Sezioni Unite della Cassazione o dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
E’ superfluo rammentare lo sconcerto che molto spesso affligge i candidati al momento della lettura della gran parte delle tracce estratte negli ultimi concorsi.
Questa tendenza delle Commissioni di concorso impone agli allievi di tarare la propria preparazione sul continuo aggiornamento delle ultime novità della giurisprudenza e della legislazione, a tutto discapito di una solida preparazione teorica, quella che dovrebbe assicurare l’affinamento delle capacità di ragionamento e di deduzione del candidato.
Un buon giudice è colui che sa ragionare con indipendenza di giudizio sulle questioni di diritto, non tanto colui che sa a memoria la giurisprudenza dei casi precedenti. La casistica giurisprudenziale è ormai facilmente reperibile nelle banche dati informatiche, mentre la capacità di ragionamento no. Tuttavia proprio quest’ultima è la chiave interpretativa giusta per meglio comprendere i precedenti giurisprudenziali su questioni analoghe a quella controversa.
Per questo, un’autentica attività di formazione deve ancora oggi mirare all’obiettivo di dare all’allievo gli strumenti giusti, in un bilanciamento tra nozioni ed organizzazione del pensiero>>.
Maria Rosaria Cardenuto
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